Data: / 1894
Codice identificativo monumento: 11743
Bolla papale di Sergio II, dove si destina al Monastero benedettino di S. Silvestro in Capite tutti i territori fuori dalla Porta Flaminia fino a Ponte Mollo, conferendo ai monaci i diritti di pedaggio ad essi connessi e dà notizia di un cenobio da loro realizzato sul Monte S. Valentino.
Menzione del Casale sul Saxum Mollaricum: “per quella strada si va all’Acqua Acetosa […] la vicina Torre sul Fiume si chiama di S. Giuliano; una specie, o residuo di Castello, che domina sopra l'Acqua Acetosa e appartiene a i Signori Boncompagni”. Lo sperone roccioso si elevava in adiacenza al versante settentrionale del colle principale e, con il suo profilo caratteristico, dominava la campagna di quell’ansa del fiume che, scrive Eschinardi, “si stima anticamente fosse un porto sul Tevere”.
Per la realizzazione di “una grande passeggiata che dalla via Flaminia volgendo a destra per le praterie di Acquacetosa deve stendersi fino alla via Salaria”, viene pubblicato dal Comune un elenco degli stabili da occuparsi pei lavori della Passeggiata. Tra i tanti terreni, vi si identifica “un fondo rustico di proprietà di Teresa Glori (figlia di Vincenzo Glori) e della Ditta Fratelli Albertini” (coproprietari con i Glori e gestori delle Cave di San Giuliano) per il quale è prevista un'indennità di 116.760 lire. Nel fondo sono rilevati quattro distinti fabbricati (tra cui i due principali che insistono nel perimetro dell'attuale Parco): Il casino padronale, considerato nelle perizie “abitazione civile”, di cinque piani, con al piano terreno “legnara e stalla” e alcuni “locali annessi di magazzino per le olive e granaro”; una “casa colonica” su due piani, “con due tinelli, stalla per cavalli e buoi, gallinaro” al piano terra e cinque camere al piano superiore; due piccoli fabbricati che si trovavano “nell’appezzamento presso le sorgenti di Acquacetosa”, nella parte pianeggiante della proprietà, provvisti di stalla con fienile soprastante e, al piano superiore, alcune piccoli vani di abitazione per lavoratori e braccianti stagionali. La proprietà Glori, rifiuta l'indennità e ingaggia una battaglia legale che si protrae per un decennio, con ricorsi e sentenze in diversi gradi di giudizio per arrivare a stabilire un importo che non apparirà congruo a nessuna delle parti. I problemi riguardano la determinazione della effettiva redditività delle “attività estrattive di pietra da taglio dalle concrezioni calcaree”, non riuscendo a definire né la misura della produzione in corso (si parla perfino di “buon travertino”, mentre il sottosuolo risulta costituito principalmente da “strati di pietra e arena”, da cui si può ricavare invece materiali di poco pregio come pietrisco calcareo e sabbia) né della vastità dei giacimenti esistenti (da cui dipende l'aspettativa di durata della miniera). Le numerose perizie (d'ufficio e di parte) concorderanno solo nel fissare la superficie totale del possedimento a 271.451,47 metri quadri, suddividendoli secondo l'orografia variabile tra la parte collinare (definita montuosa, pari a 209.949,86 mq) e quella piana (che misura 61.501,47 mq) e corrisponde alla zona compresa tra la pendice orientale del colle, via di Acquacetosa e la via del Tiro delle Barche, lungo il Tevere. Questi due tracciati, insieme al vicolo della Rondinella (nel tratto dell’attuale via Venezuela), segnano i limiti del fondo che a sud-ovest del colle confina anche con le proprietà Aldobrandini.
Teresa Glori, si affidava al parere di due eminenti ingegneri, Pio Piacentini e Augusto Innocenti, per realizzare una perizia sul valore dei suoi terreni sul Monte Cacciarello, oggetti di una richiesta di esproprio da parte del Comune. La perizia considera il terreno come “fabbricativo” e stabilisce un prezzo complessivo di 1.350.750 Lire, somma che ascende a 1.800.750 se vi viene incluso il sottosuolo, sfruttato dalla cava della ditta Albertini.
Un Decreto prefettizio sancisce l'esproprio autorizzando l'occupazione della proprietà Glori al Monte Cacciarello, da parte del Comune: sono elencate tutte le particelle catastali che la identificano nella Mappa 153 del Suburbio di Roma e fissa a 309.386,06 lire il corrispettivo da erogare. La cifra, “elevata con criteri arbitrari” (come scriveranno in seguito i periti nominati dal Tribunale, gli ingegneri Iannetti, Guidi e Stefanucci-Ala), non soddisfa nessuno e viene fatto ricorso sia dal Comune che dalla proprietà.
Il Consiglio comunale, per la necessità di provvedere i massi occorrenti per la “scogliera di imbasamento dell'argine ripuario presso l'Albero Bello”, accetta una concessione a trattativa privata, per il taglio parziale della rupe detta i Sassi di San Giuliano.
Il Ministero della pubblica istruzione, si opponende invano, al taglio parziale della rupe detta i Sassi di San Giuliano. La rupe è “contornata da elci secolari ha grandissima importanza storica, archeologica e geologica ed ha formato la delizia dei paesisti dal Rinascimento in poi” inoltre essa “conserva antichi sepolcri del tipo dei così detti colombari, di singolare importanza, già ricchissimi per la suppellettile che contenevano, ed ancora notevoli per la tecnica e le pitture decorative […] essi fiancheggiavano antiche strade oggi ancora riconoscibili; ed in quel luogo si nota […] l’antico taglio per la strada di alaggio della sponda sinistra del fiume, esempio rimasto unico ormai per la scomparsa di altri campioni”. .
Nei resti di roccia sabbiosa dello sperone del a mons Cacciarelli, il geologo e paleontologo dell’università di Roma, Alessandro Portis, scopre i resti dello scheletro di un grosso cigno maschio.